LA MACCHIA MEDITERRANEA SEMPREVIVA DI SALVATORE SAVA

La prima volta che i lavori concettuali di Salvatore Sava sono comparsi in terra di Brindisi era il 1995: sulla spiaggia del litorale erano i Cervelli per Lune-Sole, una serie di zucche di gesso su cellophane nero. Nell’agosto 1999, tra altre installazioni che rincorrevano il tema “Verso…dove?”, sono approdati sulla banchina del porto i suoi Gabbiani, opere storiche, tuttora interessanti. Nell’ottobre 2011 è stato “padrino” dell’ouverture del MAP Brindisi, nella chiesa delle Scuole Pie, con le Radici della speranza, un connubio di pietre locali “evidenziate” con gialli fluorescenti, smisurate patate zuccherine– misconosciute alle generazioni digitali - e fotografie d’indurite mani d’agricoltore, attraverso cui rilanciava le questioni legate all’alimentazione mondiale, nella metafora del prodotto tradizionale della terra salentina elevato alla sacralità dell’estetica contemporanea nel tempio cristiano. Alla raccolta di sculture del MAP ha donato le sue Spighe celesti, una creazione site specific per lo spazio religioso che, com’è gli è proprio nella cifra stilistica, imita la natura non senza spunti di riflessione critica. 
Nell’ambito della seconda rassegna “Hortus” (24-26 aprile 2015), Salvatore Sava ritorna nel capoluogo adriatico proponendo la sua Macchia Viva all’interno dello straordinario scenario naturale qual è il Parco del Cillarese, luogo d’impareggiabile bellezza, un polmone urbano e crocevia sociale di notevole importanza per la comunità brindisina. La sua produzione si confronta di frequente con gli spazi all’aperto; basti pensare alle zucche di gesso e i fiori di rame sul prato e le sfere rosa nel laghetto di Diodona nel varesino; alla Magica Luna mostra radunata tra gli esterni del complesso di S. Maria di Cerrate; le “Grandi Opere” esposte nel parco del Palazzo dell’Arte a Milano o il Fiore di pietra che dal 2006 è entrato a far parte del Parco della Scultura in Franciacorta.  
L’artista salentino ha concepito Macchia Viva come intervento di arte ambientale, che dialoga e si rapporta con il paesaggio che lo ospita: lo segna con sassi smaltati giallo fluorescente, un colore d’oggi che ricompare sulle lastre di pietra viva sorrette da tondini in ferro dei suoi sei alberelli piantati nel terreno. Sava fornisce alcune soluzioni formali e cromatiche che comprovano, non mi stancherò mai di ribadirlo, il suo legame profondo e partecipato con la terra, con il mondo vegetale, che rispetta con un trasporto genuino, l’attenzione è vera, senza forzature. C’è un cespuglio di Spighe mature, realizzate con canne di bambù e polistirolo, con il consueto risalto del colore giallo fluorescente, stessa “famiglia” di quelle celesti che troviamo al Map. Sparsi qua e là, tra arbusti, rami e folti viluppi di foglie presenti nel parco, campeggiano “frutti” ovali o allungati, di varie tinte, rossi, azzurro chiaro, diversi toni di ocra, i ridondanti gialli realizzati con materiali poveri, legno, plastiche e polistiroli riciclati, ovatta pitturata. Qualche fiorellino bianco e qualcun altro rosso o arancione spiccano tra le frasche; sono catarifrangenti riconvertiti. Sfere irregolari galleggiano a fior d’acqua. È un repertorio d’incessante mediazione tra elementi naturali e artificio. Si scorge un campo in cui la natura accoglie l’invenzione artistica, la fa propria e la restituisce a vantaggio di chi visita il luogo. 
Salvatore Sava nella sua originale ricerca d’identità culturale esplora la natura. Non solo. Le sue installazioni sono innanzitutto un’occasione comunicativa, che consente di stabilire, a lui prima di tutti ma anche ai fruitori, punti di vista nuovi, sorprendenti utili a sensibilizzarci nei confronti dell’ambiente. Come ho avuto già modo di scrivere e torna valido ribadire, la sua arte, in particolare la produzione di questi ultimi anni, è un apporto di senso etico e civile a difesa del territorio, che intende valorizzare in tutte le sue forme naturali e culturali. La poetica delle sue sculto-pitture è una reazione alla minaccia catastrofica che incombe. Il messaggio è la speranza che per noi e per le generazioni future riecheggi sempre il frinìo delle cicale.

A cura di Massimo Guastella